FILM

di Alan Schneider e Samuel Beckett (1965)

Audio Rendering di V.Grossi (2004)

 

Prima leggi tutto e poi in fondo (forse) troverai il link per vedere il film ...

Prima esecuzione assoluta:

Concerto "Grani - 2" MUS.P.A.C. L'Aquila 11-12-2004

Film visto da me  

La coscienza dalla quale è inseguito il protagonista e che incontra prima i due passanti e la vecchietta per le scale, non è la coscienza benevola e parziale quale quella a cui possiamo addivenire con notevoli sforzi ed enorme tempo: è la coscienza oggettiva ed assoluta del nostro essere in tutti i suoi tempi ( passati e futuri) in tutte le sue sembianze ( le innumerevoli immagini che noi e gli altri abbiamo di noi stessi). Una coscienza " divina" che può solo specchiare un essere completamente diverso da come lo immagineremmo, la cui vista ci annichilerebbe immediatamente.  

In tempi di ameni reality show, dove la "reality" è tanto reale quanto quella di una cavia in un labirinto da laboratorio, "Film" mostra tutta la sua potenza espressiva nel potenziale inesauribile di letture simboliche o addirittura metafisiche: l'occhio che apre e chiude il film è quello di Keaton, ma come non pensare a quello invisibile di Dio?  

 E se invece, come il titolo parrebbe sostenere, non fosse una irresistibile dichiarazione di odio verso il cinema e la macchina da presa, che già prima degli anni '60 aveva contribuito grandemente allo svuotamento dei teatri? Non a caso è l'unico film di Beckett.  

Quella che è una tecnica cinematografica alla quale ci si è subito abituati ( la ripresa "oggettiva") in realtà è, come da tempo già osservato, una forma di voyeurismo artistico; essere dovunque, alle spalle, di fronte, sopra l'attore, nella sua camera da letto, senza mai farsi vedere, senza mai dichiarare la propria presenza: un punto geometrico fantasma sempre nella posizione migliore per vedere lo svolgimento dell'azione ed ascoltarne i dialoghi.

Allora" fingere" che i personaggi ( le persone finte della sceneggiatura) si accorgano della presenza del finto/supposto spettatore-cinepresa è un po' come se in un romanzo, il personaggio dicesse ad un certo punto, magari dopo aver attraversato oceani e salvato il mondo, "Perdonatemi, ma io sono solo frutto dell'invenzione del mio autore!", cioè il disvelamento del tacito accordo che ogni "fiction" ha con il proprio spettatore.

 

Ma Samuel Beckett, per nostra fortuna, è molto più grande di colui che adesso scrive e di chi legge!

A lui, sempre, l'ultima, impossibile parola.  

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"Film" come è ovvio non ha e non ha bisogno di colore, audio, musica.

Il mio intento è stato quello di dare spessore e profondità ad ogni singolo quadro, ad ogni azione, al fine di potenziarne l'aspetto paranoico ossessivo.

Tutto il film è un continuo "togliere" "nascondere", ma l'unico frammento audio presente è un "Shhhh" pronunciato dalla signora rivolta all'uomo con gli occhiali.

Per poter sottrarre ho voluto/dovuto prima aggiungere, ed ho aggiunto tutto ciò che appare realisticamente nel film, animali, voci, rumori e anche ciò che non ha un proprio suono ( il muro, il cielo, le case, le persone, lo specchio etc.). Una sorta di aggiunta della dimensione sonora a quella visiva. La musica non "muove" gli animi, ma "colora" le immagini. Fino ad avere una traccia audio fatta di tutti gli elementi sommati e pesati secondo l'area occupata nei fotogrammi.

Solo quando Keaton si siede per l'ultima volta sulla sedia a dondolo sarà stato sottratto tutto l'audio, come nel film originale.

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FILM
DI ALAN SCHNEIDER E SAMUEL BECKETT CON BUSTER KEATON
 
USA 1965 ; 24 min
 
Con la magica fotografia in bianco e nero di Boris Kaufman, fratello di Dziga Vertov e poi 
direttore della fotografia a Hollywood, il film racconta di un uomo imbacuccato che, incontra
due vecchi e una donna, entra in una stanza, caccia fuori il cane e il gatto, oscura la finestra, 
lo specchio, straccia le fotografie della sua vita. Ci guarda e ha un gesto d'orrore. Scritto da 
Beckett, un non-film, una riflessione estrema ed enigmatica sull'orrore, sulla visione, sulla morte,
sul tentativo vano di non essere.
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“ L’audacia della sua proposta - annoterà il regista di “Film” Alan Schneider - e l’uso strettamente disciplinato di due specifiche angolazioni di ripresa emerse dietro a tutte le apparenti ambiguità delle spiegazioni tecniche. Ciò che mi veniva richiesto da Beckett non era semplicemente una macchina da presa soggettiva e una macchina da presa oggettiva, ma due differenti della realtà: quella dell’”occhio” percipiente (Oc) in continua osservazione dell’oggetto (la sceneggiatura era dapprima intitolata L’occhio), e quella dell’oggetto (Og) che osserva l’ambiente circostante. La trama di questo film fortemente insolito, dominato dalle immagini, consisteva semplicemente nel tentativo di Og di sfuggire a ogni percezione, tentativo destinato a fallire per l’impossibilità di liberarsi dalla percezione di sé. Alla fine vedremo che Og = Oc.  

Attore quasi unico, Buster Keaton, monocolo (con tanto di benda nera ad un occhio), corre accanto ad un muro per non essere visto, e si rinserra in una stanza dove provvede con sistematicità a eliminare, coprire, velare, ogni finestra, ogni pertugio, occhio, umano o animale, reale o in effige che sia, in una sorta di blindatura paranoicale. Quando l'accurata operazione, che è tutto il film, e nella quale non mancano gags grottesche degne di Beckett non meno che di Keaton (ad esempio il gatto che si ostina a rientrare dalla porta dalla quale viene fatto uscire), si compie, ecco la scoperta dell'orrore: l'unico occhio che non è stato spento è quello, narrante, della macchina da presa, che finora aveva seguito sornionamente di spalle l'ignaro protagonista: "Finchè la percezione resta dietro il protagonista non è pericolosa, perché resta inconscia"4 , quando si rivela nel campo ottico dell'ignaro attore mostra il suo carattere insopprimibilmente legato alla coscienza di sé. Coscienza di sé, coscienza dell'Io, di cui la derealizzazione è tradizionalmente considerata un disturbo, è auto-osservazione. Il circolo sembra chiudersi: se non si è percepiti non si è, se si è percepiti si è, meglio essere un personaggio che niente. Senza di te, senza il tuo sguardo, senza essere qualcosa per te, io sono nulla, dice l'amante all'amato, ma anche il paziente al terapeuta. Ma se ci si rifiuta di essere personaggi di noi stessi, allora nasce la voglia di sparire di Keaton e di Truman, e di tutti gli altri sopra ricordati eroi che si accorgono di essere trasformati in immagini, accomunati dal tropismo mortale che nasce dall'orrore di apparire. Siamo, credo, alla questione fondamentale sul destino della follia, che talora anche il cinema d'Autore riesce a riproporre: laddove il paziente incarna il desiderio radicale di non percepirsi, cioè di non essere più percepito, è abolita la condizione necessaria per qualsivoglia terapia.


Nel 1965 Samuel Beckett scrive e realizza, per la regia di Alan Scheneider, un cortometraggio di 22 minuti intitolato Film. Sarà il suo unico lavoro cinematografico. Girato in bianco e nero con la fotografia di Boris Kaufman, il film si impone allo sguardo dello spettatore scegliendo come canale comunicativo privilegiato quello visivo. Film è infatti muto e non ha colonna sonora, né presenta suono in presa diretta. Protagonista è un attore-regista simbolo di Hollywood, quel Buster Keaton che ha fatto della sua immagine la primaria caratteristica della sua celebrità.

La vicenda narra di un uomo - Keaton - che cerca di fuggire lo sguardo della cinepresa che insistentemente lo segue in ogni suo movimento. La scena si svolge in tre luoghi differenti: una strada, una scala, infine una stanza. Il protagonista non vuole essere guardato; evita perciò ogni tipo di sguardo: da quello dei passanti che incrocia per strada, a quello della donna che scende le scale, fino ad arrivare ad allontanare, in un’efficace gag (omaggio alla slapstick americana) che sottolinea l’amara ironia beckettiana,  anche gli occhi del cane, del gatto, del pappagallo e del pesciolino rosso che gli tengono compagnia in casa. Un’ossessione che lo spinge perfino a coprire con un panno lo specchio della sua camera che potrebbe riflettere la sua immagine.

Nell’Immagine-movimento, Gilles Deleuze, recuperando una celebre espressione del vescovo Berkeley dà, dell’opera beckettiana, un’interessante lettura: “Esse est percipi, essere è essere percipiti”. L’artista irlandese identifica l’esistenza con la percezione; quindi, la propria esistenza con la percezione di sé. L’assunto di partenza è anche il punto d’arrivo del discorso beckettiano: esistiamo se veniamo percepiti; dunque, non è semplicisticamente la morte ad annullarci, bensì è l’annichilimento della percezione che gli altri hanno di noi, e naturalmente noi di noi stessi. La circolarità di questo discorso viene ripresa dalla circolarità strutturale del film che si apre e si chiude, programmaticamente, con l’immagine a tutto schermo di un enorme occhio. Immagine programmatica ed esemplare: “The eye” era il titolo della prima stesura del soggetto di Film e eye, “occhio” in inglese, è omofomo di I, “io”, e quindi dell’io/soggetto/individuo, protagonista della percezione.   

Il film rappresenta la cifra del pensiero beckettiano sul tema dello sguardo e del valore simbolico del riflettersi. Già il titolo è un efficace gioco sulla riflessione, alludendo simultaneamente al prodotto filmico e alla pellicola, ossia al risultato finale e al mezzo (inteso come supporto fisico su cui si realizza materialmente il film).

Connesso allo sguardo e richiamato continuamente, è il tema dell’oblio, della perdita della memoria, del non riconoscimento della propria identità, o meglio, del tentativo estremo, definitivo di negare il proprio sé, di negar-si, fino a scomparire. E la scomparsa qui non equivale semplicemente alla fine della vita mortale, ma alla cessazione della propria percezione. Esse est percipi, da cui percipior ergo sum. Solo nell’annullamento della nostra capacità di percezione, suggerisce Beckett, si verifica in via ultimativa l’annichilimento della nostra identità.

E qui rientra il tema dello sguardo. Attraverso gli occhi, anzi l’unico occhio di Keaton, si gioca la partita della percezione. Il personaggio beckettiano cerca di sfuggire in ogni modo a qualsiasi tipo di sguardo: da quello delle persone che incontra (e che sembra nemmeno vedere) agli occhi degli altri esseri animati che vivono con lui (mette alla porta il suo cane e il suo gatto, copre poi con un panno il pesciolino rosso e il pappagallo); si nasconde ripetutamente allo “sguardo” riflessivo dello specchio; distrugge l’immagine del dio sumero Abu che con i suoi enormi occhi sembra continuamente fissarlo; evita di farsi inquadrare dalla macchina da presa.

Successivamente, l’uomo prende una cartella e ne trae fuori una serie di fotografie che ricostruiscono tutta la sua vita, dall’infanzia fino alla maturità. Le fotografie rappresentano, in modo inequivocabile, i ricordi del protagonista, cristallizzano la percezione del suo passato. Ovvio, quindi, che egli le distrugga strappandole una dopo l’altra, con un moto di rabbia crescente. Cerca, così, di cancellare tutta la sua vita. La foto dell’infanzia, come il suo ricordo, è la più difficile ad essere strappata.

 Deleuze legge Film attraverso la lente teorica delle immagini-movimento, creando un parallelismo tra i tre momenti del cortometraggio ed ognuna delle singole immagini-movimento. Nella fuga orizzontale per strada, lungo il muro e poi su per la scala il personaggio “agisce”, dando vita ad un’immagine-azione. La macchina da presa lo insegue, astenendosi dal tentativo di riprenderlo davanti. Essa è l’autopercezione che terrorizza i personaggi che con orrore vi si specchiano dentro.

 Il secondo momento è invece focalizzato sull’entrata del personaggio nella stanza. Da qui in poi, o egli percepisce soggettivamente la stanza e il suo contenuto, o viene percepito oggettivamente dalla macchina da presa: è l’immagine-percezione, considerata, secondo il filosofo francese, sotto un doppio punto di riferimento. L’uomo cerca infatti di annullare il proprio punto di vista eliminando dal suo sguardo gli animali e nascondendo lo specchio e gli oggetti simili alle cornici (la cornice è assimilabile ad un’inquadratura), oscurando così la sua visione della stanza; apparentemente scompare la soggettiva, per lasciare all’oggettiva l’unica tipologia di inquadratura ammessa. La cinepresa (ovvero l’autopercezione) continua a riprenderlo da dietro: il suo volto ci viene ancora negato. Il personaggio si accomoda sulla sedia a dondolo, soddisfatto per essersi sottratto ad ogni eventuale sguardo. L’alternarsi di soggettive e oggettive è però solo apparente: in realtà, Film è basato su due tipologie differenti di soggettiva. La prima è la soggettiva del protagonista che è sfocata e miope: il personaggio beckettiano ha, infatti, dei seri problemi con la percezione; la seconda è la soggettiva della mdp, ovvero l’autopercezione del personaggio, che è chiara e limpida. 

Arriviamo così al terzo e ultimo momento: l’estinzione della percezione soggettiva spegne anche la convenzione secondo cui la mdp si è sempre sottratta ad inquadrare il viso dell’uomo. Ad un primo assalto il protagonista si difende prontamente, raggomitolandosi in posizione fetale. Ma il secondo tentativo risulta essere decisivo: la cinepresa riesce a posizionarsi di fronte a lui, e si avvicina inesorabilmente: il personaggio si desta dal suo momentaneo torpore, svelando finalmente il suo volto atterrito, con un occhio bendato. La macchina da presa, seguendo sempre Deleuze, è il doppio del personaggio: entrambi hanno una visione monoculare. Si dà vita così all’immagine-affezione, quel tipo d’immagine, cioè, che si origina dalla percezione di sé attraverso se stessi. L’ultima difesa, la più difficile da espugnare. Crollate una dopo l’altra l’immagine-azione e l’immagine-percezione, l’immagine-affezione appare come l’estremo tentativo di salvare quel che resta della propria identità.

Film, vero e proprio dramma delle percezioni, ha un finale che lascia spazio a pochi dubbi, a leggerlo con Deleuze: “Si spegnerà, e tutto quanto si fermerà, anche il dondolio della sedia, quando il doppio volto scivolerà nel nulla? È quanto suggerisce la fine, morte, immobilità, nero”.

Ed è con la paura dipinta sul volto di un Buster Keaton terrorizzato che guarda fisso nella macchina da presa, e quindi nei nostri occhi, che Beckett ci lascia a riflettere sul valore che diamo, o che dovremmo dare, alla nostra percezione.  

finché non lo scopre la WB

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AUDIO RENDERING VINCENZO GROSSI